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Bozzetti Sondriesi. La Brambila

Tempo fa, le corriere che andavano in Valmalenco risalivano lungo il lato est di Piazzale Bertacchi, percorrevano la via XXV Aprile fino in Campello. Qui doppiavano una specie di cippo spartitraffico, scendevano lungo Corso Italia, attraversavano piazza Garibaldi e il ponte sul Mallero; poi imboccavano la via De Simoni, per prendere subito a destra e inerpicarsi sul breve tratto a tornati fino alla Baiacca.

     Solo verso la fine degli anni ’50, più o meno nel periodo in cui si costruiva la chiesa della Beata Vergine del Rosario fu aperto al traffico il tratto rettilineo in salita che parte da via Bernina. 

     Allora, quella zona era formata da un susseguirsi di brevi terrazzamenti che contendevano spazio al terreno piuttosto roccioso del luogo. Lì c’era la vigna che mio nonno Celso chiamava la “Brambila”. Non era sua, ma della famiglia Rota. Lui si era preso l’impregno di lavorarla. 

     Il nonno vi portava spesso me e il mio fratellino Lorenzo. Era contento di vederci giocare mentre rizzava i tralci o bagnava la vite. A noi piaceva di più quando andavamo a Castione, dove l’anziano (era rimasto ormai vedovo) teneva ancora la sua proprietà, dalla quale ricavava un vino fatto bene, che si beveva con gusto. In quel paese gli spazi erano di tutt’altra natura e c’erano anche i castagneti, dove potevamo giocare meglio.

     Ricordo che alla Brambila, il nonno era sempre un po’ in tensione. Il podere era abbarbicato, angusto. Più di una volta Lorenzo cadde dai muretti a secco, e in uno di quei casi rischiò di rimanere infilzato in un palo della vite. 

     Da lì lo sguardo spaziava sulle case popolari del quartiere di Viale Milano. Ricordo che c’era poca ombra e d’estate il nonno faceva fatica a lavorare. 

     Un giorno di primavera, mentre stavamo per scendere e tornarcene a casa, il nonno disse: 

     – State fermi, non muovetevi. 

     Lorenzo ed io ci bloccammo, impressionati dal tono allarmato che aveva la voce di lui.

     Eravamo sul terrazzamento più basso. Nonno Celso, depose a terra la sacca e si diede da fare a catturare un povero uccellino giallognolo che non sapeva volare. Impiegò un bel po’, rischiando anche di cadere dal muretto, ma alla fine ce la fece. Celso era un uomo pratico, buon lavoratore, ma era anche un contemplativo. 

     Due o tre anni dopo trovò l’uccellino morto nella gabbia che teneva appesa in casa sua.

     Mi disse: 

     – Giuseppe, l’è mort ‘l canarin de la Brambila.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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