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Bozzetti sondriesi. Via Trieste e le sigarette

La via è il prolungamento di quell’altra che si chiama Trento. Entrambe vogliono ricordare le città irredente che tanto sangue costarono nella guerra del ’15-’18.

     Oggi sono vie del centro cittadino, ma ancora negli anni ’50 potevano considerarsi appartenenti al “quasi centro”, perché correvano parallele alla via Mazzini e Nazario Sauro, considerate a tutti gli effetti luoghi di inizio periferia.

     La via Trieste (come la sua gemella) era percorsa da veicoli sui due sensi di marcia e la sosta era consentita lungo il marciapiede del lato sud. Non c’erano i semafori vicino alla Posta e nemmeno i passaggi pedonali, le cosiddette “zebre”, che non ricordo di avere mai visto nei primi anni della mia vita. Le auto circolavano in modo libero e abbastanza agevole per il semplice fatto che erano poche. Ricordo che a quei tempi vedevo transitare per le strade cittadine un veicolo che poi sparì completamente: il motocarro. Poteva essere scoperto o cabinato, a tre ruote. Faceva un baccano infernale: uno scoppiettare che in certi casi ti lacerava le meningi. 

     Nella mia infanzia, via Trieste giocò un ruolo abbastanza importante. Era il luogo fin dove potevo spingermi senza accompagnatori, allontanandomi di poco da casa, situata nella sottostante via Nazario Sauro: per andare nella scuola di via Cesare Battisti (sì, ci andavo anche quando frequentavo la prima elementare), per raggiungere l’incrocio dell’Alpina con la bicicletta con cui mi dilettavo a percorrere, in su e in giù, il marciapiede che fiancheggia Santa Croce e il Parco della Rimembranza.

     Quel tratto di via Trieste che va dal suddetto incrocio all’altro, vicino alla Posta, fu teatro dei miei primi servizietti domestici. Mia mamma mi mandava a prendere il latte presso la Latteria Emiliana (che non era in via Trieste, ma appena girato l’angolo con via Martiri della Libertà); mio padre, invece, fin da quando avevo sette-otto anni, mi dava l’incarico di comprargli le Nazionali senza filtro in un bar-tabaccheria (non ricordo il nome) che era situato un po’ più in là di quel negozio che oggi è un’erboristeria. E, ripensandoci, mi sembra incredibile che servissero a un bambino delle sigarette ordinate dal padre. Tanto più che il buon papà le voleva sfuse (di solito sei o dodici). Si vendevano anche così, le sigarette, mettendole in bustine di carta sottile e quasi trasparente.

     Ma erano altri tempi. Non si riversavano, sui piccoli, eccessive pure o sospetti. Si andava per la strada con maggior libertà. Si attraversava con un minimo di attenzione in qualunque punto, badando che non arrivasse un veicolo troppo lanciato. Magari un motocarro. Ma quello si faceva ben sentire… e in tempo.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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