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Redazione

Bozzetti sondriesi. La morettina del palazzo di Giustizia

Tutt’intorno all’attuale Palazzo di Giustizia correva, ai tempi, un muricciolo che delimitava un ampio cortile con piante d’alto fusto. Difronte, al di là della via Mazzini, faceva da contraltare un terreno a prato, ombreggiato da maestosi noci. Oggi, quel verde è stato più o meno conservato, ridotto solo dalla presenza di un brutto parcheggio che serve più che altro agli impiegati e agli utenti del Tribunale.

     Fino a non molti anni fa, il palazzo era una scuola, precisamente l’Istituto Tecnico e Commerciale “De Simoni”. Vi si faceva cultura e formazione, insomma, mentre la giustizia veniva amministrata altrove, precisamente in Corso Italia, nel complesso edificio che oggi è interamente riservato al Comune. 

     In quello di via Mazzini ci ho lavorato anch’io, come insegnante, nell’anno scolastico 1980-81, quando il “Besta” (è l’istituto professionale dove insegnavo) aveva bisogno di una sede provvisoria prima di passare nella nuova palazzina del Campus, luogo in cui oggi ancora si trova. 

     L’edificio è grande, con una maestosa scalinata che lo attraversa, nell’interno, per tutta la sua altezza. Per questo, forse, fu in grado di accogliere contemporaneamente più di una scuola.

     Ho un ricordo di quando avevo dodici anni. Erano sere di ottobre, piuttosto fresche e già buie, quando con un paio di compagni andavo ad aspettare una ragazzina di prima media che usciva da quel palazzo alle sei, dopo avere fatto il turno del pomeriggio. Facevamo un po’ i cretini, seguendola quasi fino a casa sua, senza mai avere il coraggio di parlarle. Anche perché lei, morettina minuta e carina, tirava avanti decisa, quasi sempre sola, portando la sua cartella con incredibile dignità. Sembrava ignorare la nostra presenza. 

     Quando quell’edificio divenne il nuovo Palazzo di Giustizia, uno dei miei figli, ancora bambino, mi disse: 

     – È giusto, papà. Il tribunale è vicino al carcere, così i ladri e gli assassini non devono fare molta strada dopo essere stati giudicati colpevoli.  

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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