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Redazione

Bozzetti sondriesi. Oltre la ferrovia

C’era ben poco, una volta, al di là della ferrovia. La città di Sondrio era tutta al di qua e sembrava avere conseguito per sempre la sua forma. 

     Quand’ero bambino, sentii dire da un anziano che i prati erano indispensabili per il foraggio delle mucche, che la zona vicino a via Nani (verso Agneda) era inabitabile per le frequenti infiltrazioni d’acqua nel terreno. E poi, secondo lui, costruire case, che sarebbero in qualche modo rimaste lontane dal cuore cittadino, non aveva senso. Sondrio era un piccolo capoluogo, con una popolazione destinata a lievitare non più di tanto. Quindi, che senso aveva un’espansione nella parte bassa? Il tizio pensava che sarebbe stato più logico ristrutturare nella zona alta, soliva, amena e più vicina al centro storico. 

     Non fu certo profeta. Avvenne tutto il contrario. Sondrio si sviluppò proprio a sud, verso l’Adda e divorò in pochi anni quasi tutti i prati disponibili. Tanto che le famiglie contadine dei quartieri periferici chiusero a poco a poco i battenti. Se negli anni ’50 e ’60 c’erano ancora mucche in via Visciastro, in via Bernina, dietro il Macello Pubblico e in via Nani, nel decennio successivo scomparvero quasi d’incanto. E oggi, naturalmente, se volete bere il latte dovete andare a comprarvelo al supermarket.

     Due miei zii appartenevano proprio al gruppo degli agricoltori sondriesi: Remo, che aveva sposato la sorella di mia madre, e Renato, marito di una sorella di mio padre, arrivata giovanissima dall’Alta Irpinia. 

     Del primo, ricordo che aveva un prato là dove la via Nani viene intersecata da quella stradina praticamente rettilinea che scende verso l’Agneda e oggi si chiama via Bormio. Mi piaceva andare con lui e con le mie cugine a raccogliere il fieno in quel posto. Sembrava proprio di essere lontani dalla città. Dell’altro mio zio, Renato, rivedo quella specie di trattore: un veicolo ibrido e rudimentale che aveva qualcosa anche del motocarro. Ricordo che una volta andammo nei prati a raccogliere non so che cosa, forse dei rametti di salice per legare la vigna. Eravamo io e mio fratello Lorenzo, e ci sembrava divertente ballonzolare su quel mezzo scoppiettante e maleodorante.

     Sotto il Macello c’era praticamente nulla, solo una fuga di prati. Poche case sorgevano lungo la via Bonfadini, che rappresentava l’unico collegamento carrozzabile con il comune di Albosaggia. Per attraversare il fiume ci si serviva di uno stretto ponte, praticamente a senso unico alternato. Oltrepassare la ferrovia voleva semplicemente dire andare in Albosaggia, al Cotonificio Fossati, oppure nella segheria Carini (oggi diventata Iperal e Cinema Mutisala), vicino alla quale c’era un’antica “santella”, oggetto di devozione di tanti sondriesi.

     Se mio nonno (o quel tizio di cui sopra) potesse vedere il panorama di Sondrio, come si presenta oggi, rimarrebbe allibito e certo penserebbe di essere caduto in altro luogo. Riconoscerebbe la città solo dal contorno montano.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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