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Bozzetti sondriesi. I vivi del cimitero

Qui da noi, c’è chi lo chiama “campo dei fiori”, e chi, invece, “camp de’ la camamela”. Un mio compagno d’oratorio lo chiamava “cimiciao”.

     Mia madre diceva che il cimitero di Sondrio è situato nel luogo più caldo d’estate e più freddo d’inverno. Quando ero bambino, mi colpiva questa espressione, che comunque ritenevo fondamentalmente giusta. Infatti, i morti non hanno bisogno di confort, non sudano sotto il solleone e non rabbrividiscono fra le croste di ghiaccio. 

     A quell’epoca (parlo degli anni ’50), il camposanto godeva di un bellissimo sfondo di vigneti, che digradavano tra le case di Colda e il costone sulla cui sommità fu costruito il convento dei Frati Cappuccini. Oggi è tutto cambiato. Le vigne di quella zona sono abbandonate e al loro posto è cresciuta un’arruffata boscaglia che dà un senso di abbandono e desolazione. 

     Al cimitero si arrivava percorrendo la via Visciastro, o deviando dalla principale via Stelvio. Ma c’era (e c’è) una terza strada, forse più importante, cioè la via don Bosco, che mette direttamente in comunicazione il cimitero con il centro storico. L’ultimo tratto era un bellissimo ma stretto viale alberato, sui cui lati si aprivano prati e campi di granoturco. Solo qualche casa di agricoltori e il complesso del Preventorio (oggi parte dell’ospedale) rendevano quella zona un po’ più urbanizzata. 

     In quel luogo, tra i filari di granoturco, ci nascondevamo a fumare la lanuggine delle pannocchie oppure qualche Alfa o Nazionale senza filtro che un compagno più intraprendente aveva rubato in casa. Lo facevamo più che altro alla fine dell’estate, quando ormai languivano le attività oratoriane e noi scappavamo per non andare in chiesa a recitare le preghiere. 

     Al cimitero, ovviamente, si accompagnava un caro estinto o ci si recava per far visita ai defunti. Sempre mia madre diceva che il 2 novembre si andava al cimitero per trovare i vivi, non i morti. Infatti, capitava di incontrare persone che non si vedevano per tutto il resto dell’anno. Così, facilmente, si chiacchierava e ci si dimenticava dei cari estinti. E a noi bambini piaceva girare tra i tumuli, guardare le foto, le date e i nomi di chi ci stava dentro.

     Un giorno degli anni ’80, quando ero un giovane padre, il mio bambino di quattro anni, Andrea, mi tirò per la giacca e mi disse: 

     – Papi, andiamo a vedere le tombole?

     Stavo parlando con un amico, incontrato all’ingresso del cimitero. Insieme a lui scoppiai in un’allegra risata.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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