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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Bozzetti sondriesi. Il terremoto a Colda

Una volta, la contrada era formata da un gruppo di vecchie case, raggruppate tra vigneti ben curati che facevano da davanzale sul cimitero e sulla zona orientale della città. Oggi, le abitazioni si sono moltiplicate, costruite una a ridosso dell’altra; mentre le vigne sono quasi del tutto scomparse. Esiste ancora la chiesetta dedicata alla Nostra Signora di Lourdes che, insieme all’originario nucleo abitativo lungo la strettoia verso Moncucco, testimonia come doveva essere Colda prima di quest’epoca dei consumi.

     Negli anni ’20 e ’30, la famiglia di mio nonno Celso abitava in un rustico, oggi ristrutturato, situato subito dopo il bivio con la stradetta in salita che si chiama Fabio Besta e che porta verso Ponchiera. Qui trascorse la fanciullezza e l’adolescenza mia madre, insieme a sua sorella Alma e al fratello Giacomo Renzo. Il quale morì in guerra e la notizia fu recapitata da un postino che arrancava su per la Panoramica, allora sterrata, spingendo la bicicletta. Naturalmente il particolare lo so grazie ai racconti di mia madre e dei miei nonni. Fu di certo una tragica giornata, in quel tardo inverno 1941.

     Saltellando giù per i terrazzamenti delle vigne (erano dei Rota e mio nonno le lavorava, godendosi la casa), mia zia Alma flirtò con un bel giovane bruno che abitava in via Visciastro e faceva l’agricoltore. Divenne, in seguito, mio zio Remo.

     Quando ero bambino, mia madre mi raccontò una piccola storia che a me è sempre sembrata incredibile. Stava giocando nella vigna, insieme alla sorella un po’ più grande, quando all’improvviso sentì un formicolio nelle gambe e la terra tremare leggermente. 

     Ricordo ancora le sue parole: 

     – Caro Giuseppe, era un terremoto, ma io non sapevo riconoscerlo. Solo più tardi, ho capito che lo era. E che si trattava del grande terremoto dell’Irpinia, avvenuto proprio nello stesso momento. Io l’ho sentito lassù, a Colda, mentre il papà ne era pienamente coinvolto.

     Correva, infatti, l’estate del 1930.

     Sorrido ancora al pensiero di quel nesso improbabile. Ma mia madre sosteneva (chissà se ne era poi convinta) che il suo futuro marito (Antonio) già si faceva sentire, sia pure inconsapevolmente, tramite il destino e madre natura: lui, appena seienne, avrebbe mandato un segnale della sua esistenza alla futura consorte decenne. 

     Mia madre avrà di certo avvertito un altro, più leggero e locale movimento tellurico, e successivamente avrà spaziato con la fantasia. Così come si spazia con lo sguardo da quelle balze coltivate, sulla città di Sondrio, e sulla maestosa corona delle Orobie.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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