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Bozzetti sondriesi. La mulattiera di Maioni e l'amico Valerio

Mi è sempre piaciuta la mulattiera che sale a tornanti da Gombaro e raggiunge la contrada Maioni. Si ha la sensazione di non essere più in città, anche se il centro storico dista poco più di un centinaio di metri.

     L’ampio sentiero sale a tornanti in mezzo a un fitto bosco in cui domina la robinia. È agevole, ma nello stesso tempo abbastanza ripido e faticoso. Da un lato hai le rocce di Campoledro che strapiombano sul Mallero; sull’altro lato incombe il dosso terrazzato di Ponchiera. E non perdi mai di vista, guardando tra i tronchi e i rami delle piante, l’abbandonata costruzione del cotonificio Fossati.

     Quando arrivi in cima, sei subito in mezzo alle case rustiche della contrada Maioni, che è un’area abitata molto circoscritta, circondata da macchie, orti e vigneti: non più Sondrio, non ancora Mossini. Certo, Mossini non è altro che una frazione del capoluogo valtellinese, tuttavia sembra rifiutare quell’agglomerato di case per lo più antiche. 

     Quando ero studente universitario, nei primi anni ’70, avevo consolidato l’amicizia con un mio vecchio compagno d’oratorio, Valerio N., che abitava proprio in contrada Maioni. Di tanto in tanto salivo a trovarlo, arrampicandomi su per quel sentiero nel bosco. 

      Con Valerio, Giacomo e Fabrizio suonavo il flauto dolce. Avevamo messo su un complesso basato su questo antico strumento. Io stavo al soprano (quello che tutti conoscono e si suona anche alla scuola media); gli altri tre si dedicavano rispettivamente al contralto, al tenore e al basso. Eseguivamo musiche adattate di autori rinascimentali, ma anche barocchi come Telemann e Hendel. Suonavamo per diletto, ma una volta ci esibimmo in saggio alle magistrali, in una classe quarta.

     Ricordo con nostalgia quei tempi, che per l’amicizia con Valerio erano legati in qualche modo alla contrada Maioni. Lui si era messo pure a suonare il violino e allora scendeva a prendere lezioni da una professoressa che abitava sulla salita Ligari. 

     Qualche volta andavo a prenderlo a casa sua, la sera, con la macchina di mio padre. Lo facevo per fargli risparmiare tempo a beneficio di quello che avremmo dedicato al nostro esercizio musicale. Gli evitavo così di scendere lungo quel sentiero, che avrebbe poi dovuto risalire nel buio della mezzanotte.

Questo racconto è scritto da Giuseppe Novellino e fa parte della rubrica "Bozzetti sondriesi".

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