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Chiavenna, la comunità per anziani "Le Betulle" travolta dal coronavirus: «Aiutateci, da soli non possiamo farcela»

Il grido di aiuto della struttura protetta: «È stata come uno tsunami, in pochi giorni la tranquilla quotidianità di una piccola comunità ha visto uno dopo l’altro ammalarsi anziani ed operatori. Abbiamo bisogno di nuove forze, asa e infermieri: senza operatori non potremo curare neanche gli anziani»

Vi proponiamo di seguito l'accorata richiesta d'aiuto che giunge dalla cooperativa sociale L'Arca di Chiavenna. Un appello a tutti, istituzioni e cittadini, affinchè possano aiutare la comunità residenziale per anziani "Le Betulle" di via Buzzetti nel contrastare la pandemia che oggi impera tra anziani ed operatori.

Una richiesta di sostegno che testimonia quanto sia difficile contrastare il coronavirus nella sua diffusione. Una "fotografia" amara, a testimonianza di quanto sia ancora grave la situazione in provincia di Sondrio. Ecco le parole della cooperativa sociale guidata da Clemente Dell'Anna.

È stato come uno tsunami, l’epidemia di COVID che ha investito la nostra struttura di Bette, stravolgendo in pochi giorni la tranquilla quotidianità di una piccola comunità che ha visto uno dopo l’altro ammalarsi anziani ed operatori.

Tutto è iniziato il 13 novembre con il riscontro di due operatori asintomatici positivi ad uno screeninig. I primi controlli attraverso tamponi rapidi eseguiti nella stessa giornata su tutti gli ospiti e su tutti gli operatori avevano dato risultati incoraggianti e speravamo di aver evitato il contagio, ma purtroppo già lunedì 16 le prime febbri, mercoledì i primi riscontri positivi tra ospiti e personale e poi ogni giorno nuovi contagi, fino ad arrivare a 20 anziani e 10 operatori.

Nella prima ondata della primavera L’Arca era stata risparmiata, grazie alle misure restrittive, alla decisione sofferta e onerosa di chiudere il Centro Diurno Integrato interno alla struttura che poteva costituire un rischio per gli anziani e a un po’ di fortuna. Ma allora c’era il lock down totale e le possibilità di contagio per quanto elevate erano meno diffuse, in questi due mesi invece abbiamo dovuto difenderci su più fronti, poiché ogni giorno emergevano nuovi rischi (familiari degli operatori in quarantena per motivi di lavoro, scolastici, per contatti extra lavorativi) ma anche troppe occasioni di contagio in una quotidianità limitata ma sempre ampia in termini di rischio. Abbiamo adottato una linea di grande prudenza e misure di sicurezza.

Non abbiamo mai riaperto le visite dei parenti, consentite solo da luglio attraverso uno schermo, senza contatti diretti, ma che permetteva agli anziani di vedere i familiari e di parlare con loro.

Ricordo a metà ottobre, quando abbiamo annunciato che non sarebbe stato più possibile proseguire nemmeno questi contatti, che pur se poveri di abbracci e di intimità, mantenevano saldo il legame familiare, ho visto nei loro occhi la tristezza, lo smarrimento. Abbiamo spiegato che lo si faceva per il loro bene, per proteggerli da questo virus pericoloso e da buoni abitanti della montagna hanno accettato con serena rassegnazione - “si fa quello che si deve fare”- hanno risposto.

Da quel giorno, come nei mesi precedenti, i nostri operatori oltre all’assistenza e al sostegno relazionale, hanno vicariato anche quella parte affettiva che è venuta a mancare e hanno cercato i tutti i modi di mantenere il contatto tra ospiti e familiari, attraverso tablet e videochiamate e gruppi di sostegno con uno psicologo per rielaborare le fatiche e le sofferenze emotive di questi lunghi mesi.

Invece il virus si è insinuato subdolamente e ha fatto bene il suo lavoro, con una rapidità incredibile, e come un fiammifero in un fienile, ha fatto divampare l’epidemia.

Tranne tre ospiti che hanno dovuto essere trasferiti in ospedale per ricevere cure più appropriate, gli altri anziani vengono curati nella struttura, poiché nonostante fosse previsto il trasferimento immediato dei casi COVID in idonea struttura, apprendiamo che nessuna struttura ora può ospitarli.

E quindi da comunità assistenziale, con un piccolo nucleo sanitario per le Cure Intermedie, ci siamo trasformati in un ospedale, tra mille difficoltà, problemi logistici dovuti ad una struttura nata e costruita per creare aggregazione, socialità, aria di casa, non certo emergenze sanitarie complesse, con una dotazione di personale sanitario minimale e decimato dal COVID.

Gli anziani sono stabili, visitati quotidianamente dal nostro medico delle Cure Intermedie, dott.ssa Lucchinetti e quando serve dal nostro Referente Covid Dr Chirico, disponibile anche per effettuare le ecografie polmonari, ma sappiamo che il virus è imprevedibile e l’apprensione resta elevata. I familiari vengono costantemente informati.

Prima ci sentivamo responsabili del benessere, del mantenimento dell’autonomia e perché no, della felicità dei nostri anziani, oggi su noi tutti grava la responsabilità della loro vita.

E’ un fardello pesante per gli operatori, che infaticabili e irriconoscibili stanno combattendo una dura battaglia, mettendo a rischio anche la loro salute, sostenuti anche da chi, in quarantena, manda messaggi di incoraggiamento e di dispiacere per non poter esser lì a dare una mano.

La preoccupazione ora è per loro, non potranno resistere a lungo senza riposi, e col rischio che si ammali ancora qualcuno.

Abbiamo bisogno di nuove forze, di ASA di Infermieri, disposti a fare un po’ di tutto.

Senza operatori non potremo curare neanche gli anziani.

Per la prima volta in 35 anni, L’Arca chiede aiuto: da soli non possiamo farcela.

Chi volesse dare un supporto può chiamare il numero 3407645594 o inviare una mail a luoghicomuni@arcacoopchiavenna.it.

Grazie

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